29/05/10

Segnalamenti vari.


Ho appena finito di giocare a questo Alan Wake. Una specie di thriller/horror sullo stile di Stephen King, o un pochino anche alla Twin Peaks. Molto molto bello, sembra effettivamente di giocare a una miniserie televisiva e non vedo l'ora che, su Internet, rendano disponibili degli episodi aggiuntivi che dovrebbero essere in lavorazione.

Tenete conto che di solito coi videogiochi mi rompo sempre a metà e non li finisco mai, mentre questo qui mi ha preso fino alla fine. L'unico difetto è che è un po' troppo corto... chissà, magari è proprio per quello che l'ho finito pure io?



In uscita dagli amici della Delos c'è questo 365 racconti erotici per un anno. Chiarisco che - per quanto mi riguarda - il sesso raccontato per scritto equivale ad andare al ristorante per mangiare il menu. Mi piaceva però molto l'idea tutta nuova del mega-libro collettivo gigante, tant'è che ho partecipato alle selezioni con un racconto che di erotico non aveva nulla e che (immagino) per questo è stato prontamente scartato.

A leggere i nomi degli autori ci ha lavorato anche un bel po' di gente importante, per cui su 365 testi ce ne saranno per forza alcuni interessanti. Contate poi che, se questa andrà bene, alla Delos potrebbero pensare di fare altre antologie analoghe a tema horror, fantascientifico o quello che sarà. Il libro lo trovate già online e presto in libreria, mentre il racconto che avevo proposto io lo trovate qui.



Vi segnalo infine l'ultimo libro di Alessandro Girola, l'equivalente italiano di Brian Keene (autore che io personalmente trovo meno interessante che rileggere i miei stessi post di quando mi lamentavo dei critici letterari, ma pare che piaccia molto a chi ama certi generi). Se leggete le prime pagine di questo Prometeo e la guerra capirete subito che il livello dell'idea è notevole (gli zombi usati come soldati nella prima guerra mondiale... o forse è la seconda, non lo so) e gli appassionati dell'horror non dovrebbero farsi scappare un titolo del genere.

Per ragioni discusse ampliamente sul suo blog, Alex non è in cerca di un editore e distribuisce i suoi lavori solo per via elettronica. Per questo motivo il libro è scaricabile gratuitamente a questo indirizzo insieme a tanti altri dello stesso autore.

Simone

28/05/10

Una mezza risposta (un turno al centro di accoglienza).

Centro di accoglienza della Croce Rossa Italiana, in provincia di Roma.

Una serie di palazzoni alti due piani, larghi e tozzi, disposti attorno a una distesa di cemento completamente spoglia. C'è un sole che se provi ad attraversare il piazzale senza coprirti la testa, è capace che ci resti secco.

Ovunque, gruppetti di stranieri seduti all'ombra, per terra o su qualche seggiola rimediata, che ascoltano musica o chiacchierano tra di loro. Qualcuno dei più giovani trova la voglia di giocare a calcio, nonostante il caldo, e corrono dietro alla palla tra il cielo infuocato e l'asfalto rovente. Hanno tutti un fisico da calciatori professionisti, altro che le squadre di calcetto dove ho giocato io, coi miei amici.

Quello in cui mi trovo non è uno di quei centri dove gli extracomunitari vengono detenuti in attesa di essere rimpatriati. Le persone che si trovano qui hanno richiesto lo stato di rifugiati politici, e se vogliono sono liberi di entrare e uscire dal centro come e quando vogliono. Non ci sono cancelli, sbarramenti o altro. Se vuoi, prendi e te ne vai. Poi se alla sera fanno l'appello e non ti trovano, magari perdi il posto, o lo status richiesto, o cosa succede di preciso - sinceramente - non lo so: riguardo a leggi e diritti vari, non conosco assolutamente nulla.

Tra volontari e dipendenti della Croce Rossa saremo una cinquantina. Qualcuno è finito al magazzino, a sistemare scatolame e vestiario. Qualcuno in cucina. Qualcuno è nell'ambulatorio medico a fare visite e medicazioni, e qualcun altro fa avanti e indietro tra qui e Roma per trasportare persone e materiali. Io mi sento sempre un po' a disagio, in queste situazioni: non so cucinare, non so come funziona un campo di protezione civile, non sono né medico né infermiere, non parlo la lingua delle persone che ospitiamo e non ho molte altre esperienze simili a queste sulle quali basarmi.

Io come volontariato insegno rianimazione e vado in ambulanza, e qui queste cose non servono. Certo è che se mi mettevano in magazzino magari per incollarmi le scatole non serviva davvero essere uno scienziato... ma insomma le decisioni non le prendo io, e mi hanno assegnato alla mensa.

La mensa consiste in uno stanzone enorme, con un bancone dove si serve da mangiare, diverse file di tavoli e uno spazio di accoglienza in cui gli ospiti del centro lasciano il proprio nome e cognome in modo tale da tenere l'archivio di chi c'è e chi non c'è. Di volontari al lavoro ce ne sono già un sacco, e non mi sento la persona più insostituibile al mondo, ma decido di fare praticamente l'unica cosa di cui sono capace. Prendo una scopa, una paletta, e mi metto a spazzare il pavimento.

Detto così non pare questo grosso lavoro, e a tutti gli effetti non lo è. Ma in ogni caso pulire una sala dove mangiano qualche centinaio di persone richiede il suo tempo, e alla fine la maggior parte del mio turno la passerò così.

Inizialmente la sala è ancora vuota, perché è presto. Poi verso mezzogiorno iniziano ad arrivare i primi ospiti, e si forma una coda mentre gli addetti alle registrazioni controllano nomi e documenti. A mezzogiorno e mezza devo fermarmi, perché c'è troppo casino per continuare a spazzare senza dare fastidio. Lascio i miei strumenti in un angolo, mi accendo una sigaretta e mi metto da parte a osservare le persone che mangiano.

Tra gli stranieri ci sono persone di tutte le età, ma prevalentemente giovani. Sono arrivati con navi, canotti, o furgoni o forse anche chissà come, non so quanti metodi esisteranno, in realtà. Tra di loro volontari e dipendenti della Croce Rossa, con le loro divise blu o arancioni. Chi prepara i piatti per la gente in fila, chi controlla elenchi e numeri vari, chi lava i vassoi, chi si muove da una parte e dall'altra spostando il materiale e chi dirige un po' tutto.

Tra tutte queste persone, quello che noto di più è un ragazzo che porta una bambina piccola dentro a un passeggino. All'inizio sembra indeciso su quello che deve fare, addirittura smarrito. Poi alcune volontarie che sembrano conoscerlo gli si avvicinano, prendono la bambina e si occupano di farla mangiare, mentre lui si allontana per mettersi in fila per la mensa.

Tempo qualche minuto e il papà torna a sedersi accanto a noi. La bimba ha già finito di mangiare, e uno dei dipendenti della Croce Rossa si avvicina al loro tavolo. Non ricordo il nome di questa persona. Di lui so solo che partecipa sempre a questo genere di operazioni, e che è stato spesso anche all'estero in qualche paese del cavolo. Con sé, porta una busta di plastica con dentro qualcosa.

«Sono venuti con un gommone» mi spiega il nuovo arrivato, mentre prende la bambina per metterla a sedere sul tavolo. «Lei, il padre e la madre. La mamma pare che sia caduta in acqua, ed è affogata».

Descrivere una sensazione come un pugno allo stomaco non sarà l'espressione più originale che possa venire in mente a uno scrittore, ma effettivamente è di sicuro la più adatta. D'istinto mi volto a guardare il padre della piccola: ovviamente non capisce quello che diciamo. Dialoga con un po' di gesti e un po' d'inglese con le volontarie, e ogni tanto si mette un boccone in bocca a mastica qualcosa. Sorride, ma è il sorriso di una persona stanca, quasi stordita. Di uno che sta andando avanti solo per inerzia, e nient'altro.

Il dipendente della Croce Rossa apre la busta che aveva con sé, e tira fuori un vestitino bianco, con una piccola gonna ricamata all'altezza dei fianchi. Credo che si chiami tutù, ma non ci metterei la mano sul fuoco.

«In magazzini abbiamo anche vestiti per bambini piccoli?» gli domando.

Lui scuote la testa.

«No. Ho visto ieri che era qui col padre, e gliel'ho comprato io».

Detto questo prende la bambina, e inizia a metterle il vestito nuovo. Infila le maniche e chiude i piccoli bottoni con la rapidità di uno che di certe cose ha esperienza, e io penso che non sarei capace nemmeno a fare quello. Quando ha terminato mette la bambina in piedi sul tavolo, e osserva il risultato finale con un'espressione soddisfatta. Alla fine le dà un bacio sulla fronte. È un bacio sincero, come fosse una figlia sua.

Io torno a spazzare il pavimento della sala. Cosa ti aspetta nella vita - mi chiedo - se nemmeno nasci che è già tutto un disastro? Sarò mai quello che fa la differenza, o resterò sempre uno che passa, dà un'occhiata tanto per, e poi se ne va? E che futuro ci aspetta, a noi tutti, in un mondo che è uno schifo del genere? Nella testa ho diecimila discorsi, dubbi e domande, e per nessuna ho nemmeno mezza risposta.

Finito il mio turno monto sul furgone che mi riporterà a casa. Sono stanco, un po' confuso forse, ma è stata una giornata che ricorderò a lungo e - tutto sommato - non è andata male come temevo.

Alla sera poi arriva la notizia: hanno trovato la madre della bambina piccola. Era con un altro gruppo di rifugiati, in un centro di accoglienza più a nord. Domani si riuniranno di nuovo.

E il mondo fa un po' meno schifo.

Simone

26/05/10

Meno male che non sono un eroe.

Come è ormai diventata praticamente una tradizione, anche quest'anno ho deciso di festeggiare il compleanno insieme a quello del mio amico Giovanni. In fin dei conti non è che una scusa per passare un paio d'ore insieme agli amici che abbiamo in comune, ed è anche un ottimo sistema di fare la bella figura di quello che offre la cena... pagandone effettivamente soltanto la metà.

Ma insomma, ora non sto qui a raccontarvi tutta la cena, che in effetti non penso che vi interessi minimamente. La solita festa con la gente che dice battute volgari (io) che prende per il culo il festeggiato (io, che prendevo per il culo Giovanni) che rompe le palle perché deve fare centomila foto (sempre io) e tutte le situazioni di rito. Se poi non potete vivere senza saperlo, io ho mangiato una specie di piatto di pasta agli scampi, e per secondo ho ordinato una frittura da fare a mezzi con uno degli invitati. Un mezzo di una cosa che pagherò a metà con un altro vuol dire un quarto della spesa finale, una mossa da fare invidia anche ai più grandi economisti di Wall Street.

E poi le grida di una donna, che attirano l'attenzione di tutti.

«Aiuto, aiutateci! Chiamate un'ambulanza!»

Il locale piomba nel silenzio. Mi volto a cercare chi stava urlando, e dietro di me vedo un tavolo con una dozzina di persone. Cinque o sei sono accalcate attorno a qualcuno che non riesco a vedere, mentre le altre sono in piedi, evidentemente agitate.

«Aiuto!» la donna di prima grida di nuovo. Avrà cinquant'anni, non molto alta, bionda. Completamente terrorizzata. «Oddio, mamma, no!»

Mi pare evidente che qualcuno stia male, e ancora più evidente è che deve trattarsi della persona attorno alla quale si accalcano tutti. Ora, io non è che corra incontro al pericolo, o che ami particolarmente le situazioni tragiche o drammatiche. Ma avendo un minimo di esperienza col 118 mi è semplicemente parso naturale lasciare lì il mio mezzo fritto misto per andare a vedere cosa stava accadendo, nell'idea magari di poter fare qualcosa di utile.

«Oddio, mamma, rispondi. Mamma!»

Da qualche parte c'è sempre la solita donna che grida, e questo mi pare che si sia capito. Dietro di lei c'è un signore sulla sessantina che sembra anche lui molto agitato, ma decisamente più lucido. Ha il cellulare in mano, e sta evidentemente chiamando i soccorsi.

«Qual è l'indirizzo di questo posto?» domanda, mentre compone quello che spero sia il numero giusto.

Io non lo so, l'indirizzo. Mi guardo intorno, e incontro gli sguardi sperduti delle altre persone accanto a me: l'indirizzo non lo sa nessuno.

«A che indirizzo stiamo?» chiede ancora il signore col telefono, spostandosi verso l'uscita del locale. E poi non lo vedo più.

Io assumo che almeno il proprietario sappia in che posto si trova il suo ristorante, e mi concentro finalmente sulla persona che sta male: seduta in mezzo a tre o quattro altri parenti c'è una signora anziana, ma non riesco a vedere il suo viso. Se è sveglia o svenuta, se sta soffocando o se sanguina: non vedo niente.

Accanto a lei, oltre alla donna nel panico di prima, c'è un uomo che la scuote violentemente.

«Mamma» la chiama, senza ottenere risposta. «Mamma!»

Mi spingo un po' più avanti, e finalmente riesco a vedere un po' meglio: la donna sulla sedia avrà un'ottantina d'anni. Ha gli occhi chiusi, e nonostante i parenti che la chiamano, la scuotono e la prendono a sberle, lei non reagisce nemmeno. Noto anche che prima di perdere i sensi deve aver dato di stomaco, perchè c'è vomito ovunque.

Mi tornano alla mente anni di esercitazioni, discorsi, chiacchiere, lezioni, corsi ed esami alla Croce Rossa: potrebbe essere un arresto cardiaco, e nel caso bisognerà partire col Basic Life Support, che sarebbe la rianimazione e tutto il resto. Cioè, bisognerà che parta io, perché qui intorno non mi pare che ci sia qualcun altro con una benché minima mezza idea su quello che bisognerebbe fare.

Guardo meglio la scena: c'è tanto di quel vomito sul tavolo, per terra e sui vestiti che mettermi lì a fare il massaggio cardiaco senza inzaccherarmi tutto mi pare impossibile. Per la respirazione bocca a bocca potrei proteggermi mettendo un tovagliolino sulle labbra della donna, dalle quali vedo colare succhi gastrici e roba mezza masticata: sarà - davvero - meraviglioso. Il compleanno che ho sempre sognato.

Come ho sempre detto anch'io, una persona non può sapere come reagirà a certe situazioni, prima di trovarsici in mezzo. E in un attimo mi passano in mente non so quanti ragionamenti: questa qui ce ne avrà novanta, di anni... cioè, mica è un bambino piccolo. E a me che me ne frega? Magari non ne vale nemmeno la pena, e finisce pure che mi denunciano.

E allora - mi chiedo - che faccio? Che cosa faccio?

La rianimazione polmonare va eseguita con la persona che sta male sdraiata sul pavimento. Questa donna, adesso, si trova in posizione seduta, per cui la prima cosa da fare è spostarla.

«Dovremmo metterla per terra» dico al figlio, che sta ancora cercando di defibrillarla a forza di schiaffoni.

Lui non mi sente nemmeno, è troppo agitato e preso da quello che sta facendo.

«Per favore» spiego, cercando di farmi sentire. «Mi aiuti a metterla sul pavimento».

Ma non mi si caga - letteralmente - ancora nessuno. Sono come una zanzara che gira intorno a persone completamente prese da cose troppo importanti. A questo punto dovrei provare a qualificarmi. Dire: sono un volontario del soccorso della Croce Rossa Italiana, e so io cosa fare! Magari in tono altisonante, con le braccia al petto, il vento che mi fa ondeggiare i capelli e una musica epica come sottofondo. Che poi scommetto che non mi daranno retta lo stesso: il vento cesserà di botto e la musica epica diventerà un gingle stupido, di quelli stile protagonista che ha appena fatto una figura di merda.

Ma, grazie a Dio, a quel punto la signora anziana capisce che era scortese morire durante una festa, e si risveglia. Riapre gli occhi, coi figli tutt'intorno che l'abbracciano e il proprietario che tira un sospiro di sollievo: se un cliente muore durante la cena, la sua parte del conto non vuole mai pagarla nessuno.

Prima di allontanarmi, io vorrei solo capire se si è ripresa davvero, per cui mi accosto a lei e le prendo una mano.

«Signora, come si sente?» le domando, guardandola negli occhi.

«Eh» risponde lei. «Così così».

Mi sembra abbastanza lucida, per cui forse non è stato nulla di grave. Torno a sedermi, e nel giro di qualche minuto la signora anziana viene accompagnata fuori dal locale, e poco dopo arriva anche l'ambulanza.

Guardando l'ora, mi rendo conto che sono passati più o meno 10 minuti dall'inizio di tutto il casino. In quell'arco di tempo, se io avevo fatto la rianimazione cardiopolmonare adesso il personale d'ambulanza usava il defibrillatore, e il soccorso poteva anche essere finito bene. Forse stavamo proprio nel limite di tempo massimo, ma in 10 minuti - e con un po' di fortuna - a riprendere un arresto cardiaco ancora ce la potresti fare.

E invece non è successo nulla del genere: non ho dovuto tentare un massaggio cardiaco a gattoni nel vomito. Niente gente che grida, parenti in lacrime, persone che si sentono male e idioti di passaggio che se la prendono con me e vogliono picchiarmi. È stato il solito - scontato - compleanno con con torta, candeline, spumante, regali vari e baci abbracci degli invitati, nel quale non ho compiuto gesti coraggiosi e non ho neanche salvato la vita a nessuno.

E non posso fare a meno di aggiungere: meno male.

Meno male che non sono un eroe.

Simone

19/05/10

Riflessioni di uno scrittore, a un anno dal primo libro.

Le prime copie di Io scrivo - Manuale di sopravvivenza creativa per scrittori esordienti (spero di ricordarmi bene almeno il titolo!) sono arrivate nel negozio online della Delos ad Aprile dello scorso anno, mentre se non sbaglio il libro è apparso nelle librerie attorno a Maggio.

A un anno di distanza dalla pubblicazione, è quasi il momento di tirare le somme e di ragionare su come è andata questa esperienza. Dico quasi perché, a differenza di altre tipologie di testi e di altri generi, un trattato sulla scrittura è un libro che rimane in un certo senso nuovo per più tempo. A mano a mano che nuove persone scoprono i siti della Delos e le loro iniziative dedicate alla scrittura creativa, queste persone possono sempre scoprire anche il mio testo, e decidere di comprarlo.

Fatta questa premessa, a Dicembre 2009 il libro aveva venduto TOT copie. Non dico il numero esatto, per tanti motivi, ma sappiate semplicemente che TOT copie per un libro di un piccolo editore non sono tante, ma non sono nemmeno pochissime. Sono certamente meno di quello che speravo - per motivi che spiegherò più avanti - ma più di quello che temevo per cui, insomma, così è e così è andata senza tragedie o festeggiamenti vari. Una cosa, diciamo, accettabile.

Di certo, mi sarebbe piaciuto che il libro andasse un po' meglio. Non dico che volevo vendere chissà cosa, considerando che siamo sempre nell'ambito della piccola/media editoria, ma secondo me non sono riuscito a superare una sorta di punto di rottura di copie vendute, che era invece il mio obiettivo primario. Se il libro girava un po' di più di quanto non abbia fatto, io sarei iniziato a passare per l'autore che in un certo senso funziona, e qualche editore avrebbe potuto pubblicarmi anche cose che - magari - a uno scrittore sconosciuto non pubblicherebbero mai.

In particolare c'è una sorta di seguito di Io scrivo, la raccolta dei post sulla scrittura che ho scritto dopo quelli raccolti nel primo libro, che aspetta solo di essere montato a partire dal materiale che avevo. Soltanto che il seguito di un libro che non ha venduto moltissimo, generalmente, non è che venda più del titolo originale, e almeno per ora tutto il materiale non può trovare una collocazione editoriale.

Stessa storia per Il mondo quasi nuovo, la raccolta degli articoli che scrivevo nel secondo blog. Secondo me, se è piaciuto Io scrivo (e di questo parlerò tra un attimo) non vedo perché non dovrebbe piacere anche quest'altro mio testo, magari a un pubblico più eterogenero rispetto a quello degli aspiranti scrittori.

Parlando dell'apprezzamento che ha ricevuto Io scrivo, devo dire che - al di là dei dati di vendita - le cose sono andate ben oltre quello che speravo. Tra recensioni, email ricevute, commenti su Anobii e richieste di amicizia su facebook, non mi pare ci sia alcun dubbio che ai lettori il testo sia piaciuto. Quello che penso io è che se su TOT persone che comprano un libro almeno il 20 per cento decide, in qualche modo, di parlarne online o di contattare l'autore, è evidente che in un qualche modo il testo deve averli colpiti. E sicuramente preferisco aver venduto meno del preventivato senza scontentare nessuno, piuttosto che aver scritto un best-seller per sentirmi dire da chi mi scrive che il libro gli ha fatto schifo.

Più che altro, a me andrebbe bene una normalissima via di mezzo: un libro che vende il giusto e piace il giusto, senza sogni di gloria o altro. Come ho già detto altre volte, a me di diventare uno scrittore famoso non può fregarmene di meno: la gente famosa non mi pare più soddisfatta o più felice di quella normale, e la semplice idea di essere riconosciuto da qualcuno quando vado in giro a farmi i cazzi miei mi dà un vago senso di inquietudine che non sarei proprio disposto ad accettare.

Io nella mia vita farò il dottore, magari farò pure ancora (in qualche modo) l'ingegnere, suonerò la batteria quando ne avrò voglia, andrò sempre alla Croce Rossa e tutte le cose che mi piace fare adesso o che mi piaceranno un domani. Poi vorrei anche pubblicare un libretto ogni tanto, avendo il mio spazietto ben definito senza fantasie o paranoie strane, e sentirmi gratificato nel sapere che quello che scrivo - a un certo pubblico - piace.

Quello che temo, è che non sia possibile: dopo anni di scrittura, blog e relazioni più o meno stabili con persone che lavorano in editoria, mi pare che ci siano solo due possibilità. O ti butti negli ebook autoprodotti e nella micro-editoria, rinunciando perciò ad avere un certo tipo di visibilità e di pubblico (per me è una scelta sacrosanta, ma non è la mia, e finiamo subito il discorso) oppure punti a editori più grandi ai quali, però, devi essere in grado di proporre lavori che si inseriscano perfettamente in tutta una serie di canoni che - per incapacità o per semplice sfiga - io non sono mai stato in grado di rispettare.

Insomma la scelta, forse, a questo punto, è o di mollare tutto perché tanto quello che cerco io non è raggiungibile, o di continuare a provare e a scrivere come pare a me, sperando che prima o poi la ruota giri di nuovo, e arrivi un altro colpo di fortuna come quello avuto con la Delos.

E le scelte, come ormai per chi mi legge sarà evidente da tempo, le ho fatte entrambe: per un po' mollo, e per un po' vado avanti.

Mollo di sicuro con i discorsi sulla scrittura, con i blog letterari e con tutto quello che riguarda gli aspiranti scrittori. Ciao e addio a recensori piagnoni, autori falliti, gente che rosica per il successo degli altri, persone che distruggono senza rispetto il lavoro altrui, giustizieri senza nome, ipocriti, illusi e montati. Il funzionamento dell'editoria, o del mondo reale (perché in fondo di quello si tratta) mi pare talmente evidente e sviscerato a un livello tale che non ha più senso, per me, stare ancora a parlarne. Uno scrittore è uno che parla e comunica e dice qualcosa, e questo processo non passa per la ripetizione infinita degli stessi, identici concetti.

Cosa diversa, ovviamente, se il mio ruolo non sarà quello dell'aspirante scrittore emergente che non lo pubblica nessuno (visto che non è neppure quello che sono, ormai da un anno) ma dell'autore che ha una determinata esperienza e conoscenza di certi argomenti, e che a ragion veduta dice la sua. E magari ancora meglio se si parla di medicina, o di ingegneria, invece che dei soliti libri.

Vado invece avanti a scrivere, su questo non ci piove. Ormai ho trovato una specie di stile personale, una specie di equilibrio, e - come dicevo tempo fa a un amico - gli autori ai quali mi sento maggiormente vicino sono tutte persone che hanno detto qualcosa di interessante ben oltre i 40 anni. Io ho pubblicato il primo libro a 33 o quanti erano, per cui da un certo punto di vista sto anche una spanna sopra ai migliori... volendo inserire tra i migliori, ovviamente, quelli che piacciono a me.

Ora è da un po' che sul blog pubblico queste storielle un po' ironiche, un po' serie e tutte più o meno autobiografiche. Poi metterò tutto insieme, ne verrà fuori l'ennesimo libretto, e andrò avanti col progetto successivo. Da qui ad altri 5 anni, continuando a questo modo, quel che dovrà accadere accadrà.

Di sicuro, se tutto va per il verso giusto, tra 5 anni mi sarò almeno preso questa benedetta seconda laurea. Starò facendo il medico già da un po', e già questo mi pare un traguardo enorme. Se poi starò anche presentando qualche libro scritto da me questo, ovviamente, non posso saperlo. Può darsi.

L'unica cosa che posso fare, davvero, e andare avanti continuando a impegnarmi su tutto quello che faccio, ed è proprio quello che ho intenzione di fare.

E finché avrete voglia di passare da queste parti, sarò sempre felice di parlarne un po' con voi.

Simone

15/05/10

Quattro sedie orfane.

Oggi arrivano i mobili per il terrazzo. Non che abbia tutto questo spazio da riempire, ma certo un tavolino con quattro sedie per stare all'aperto, adesso che viene l'estate, non è niente male. E sì che sono mesi che piove sempre... ma il bel tempo dovrà pur arrivare, e io solo a pensare alle serate con gli amici e qualche birra mi sento già tutto contento.

Alle nove in punto suona il trasportatore. Io apro, e tempo qualche minuto il facchino viene su con tutta la roba bene imballata. Tutto tranne il tavolo, che era in esposizione e per questo arriva semplicemente smontato. Non succede mai nessun problema, per consegne di questo tipo, mi hanno detto mentre facevo l'ordine. E poi mi hanno fatto pure lo sconto, per cui meglio di così non poteva andare. O - per lo meno - era ciò che pensavo.

Mentre il ragazzo delle consegne finisce di scaricare, io do un'occhiata alle mie cose. Le sedie sono ok, i cuscini ok, mentre il tavolino... cavolo! Il tavolino è rotto. C'è uno spacco proprio su uno dei perni girevoli, e se uno volesse aprirlo di sicuro si incastrerebbe. E meno male che non succedeva mai, ma che razza di sfiga!

«Il tavolo è rotto» dico al facchino, mostrandogli il legno spezzato. «Vedi?»

Quello si stringe nelle spalle.

«Eh sì. Deve riportarlo al rivenditore, e chiedere di sostituirlo».

«Ma non puoi riprendertelo direttamente tu? Così risparmiamo un viaggio».

«No, assolutamente no» il facchino pare assolutamente certo del suo punto di vista. «Io non ho l'autorizzazione per fare una cosa del genere».

La cosa ovviamente non mi va tanto giù: cioè, me lo portano rotto, e poi io devo pure incollarmelo fino al negozio per farlo cambiare? Mi domando come farò mai a infilare il tavolo nella mia macchina, guidare fino a lì e andare in giro per sale e reparti con appresso quell'affare che peserà almeno 30 Kg. Ma che devo fare, litigarci? Il fatto è che - di solito - io sono uno che accetta tutto, e quasi quasi mi arrendo: che ci può fare, lui, poverino, se gli hanno ordinato di fare così?

Ma poi per fortuna mi dico che non è che uno può abbozzare sempre, e mi impunto.

«Senti» gli faccio, cercando comunque di restare tranquillo. «Io il tavolo rotto non lo voglio. La ricevuta non te la firmo, e tu lo prendi e te lo riporti indietro».

Ma il ragazzo delle consegne, ovviamente, non è daccordo.

«Io non posso riprenderlo, non ho l'autorizzazione

«Ok. Allora sentiamo che dice il negozio».

Cerco il numero del rivenditore sulla ricevuta, e lo chiamo. Mi risponde una ragazza, alla quale faccio presente il problema.

«Ho ricevuto i mobili che ho ordinato da voi» dico. «Ma il tavolo è rotto, e io non lo voglio».

«Le passo il reparto addetto» è la risposta. Poi parte la musica di attesa, e dopo un po' mi risponde una nuova voce.

«Mi avete mandato un mobile danneggiato» spiego, una seconda volta.

Mi mettono di nuovo in attesa, e in attesa rimango. Uno, due, tre minuti. Poi saranno almeno cinque, e riattacco.

Il facchino sembra quasi sollevato, e vorrebbe andarsene. Ma io adesso m'incazzo davvero.

«Insomma, tu il tavolo non vuoi portarlo via, e il negozio non mi risponde. Alla fine state facendo a scaricabarile, e se mi tengo il tavolino rotto scommetto che non me lo cambiano più, e me la prendo in quel posto».

«Ma no!» si giustifica lui. «Non si preoccupi. Vedrà che glielo cambiano, è così che funziona».

Io però non mi arrendo, e rifaccio il numero del venditore. Di nuovo una voce di ragazza, di nuovo le mie spiegazioni (soltanto un po' più alterate) e di nuovo mi mettono in attesa. Se non risponde qualcuno nemmeno adesso, allora si vede che mi hanno fregato. Però - se non altro - avrò fatto il possibile.

Mi fanno fare il giro di tutti i telefoni del rivenditore: centralino, ufficio vendite, magazzino, ufficio reclami... sembra che nessuno sappia cosa rispondermi, e che mi si tolga dalle palle scaricandomi a un altro reparto. Poi, d'improvviso, arriva una voce un po' diversa.

«Qual è il problema, signore?» mi fa, con un accento che mi pare straniero.

«È la decima persona che mi passano» gli dico. «Mi avete mandato un tavolo sfasciato, e voglio che ve lo riprendiate indietro».

«Le chiedo scusa per l'inconveniente, signore. Mi lasci parlare col trasportatore».

Passo il telefono al ragazzo delle consegne. Quello spiega la situazione alla voce straniera, si appunta qualcosa, e finalmente viene deciso che il tavolino se lo portano via subito. Poi io quando voglio potrò tornare al negozio, e sceglierne un altro. E insomma, è andata: io non volevo che mi restituissero i soldi, ma desideravo solo un tavolo non rotto, per cui non c'è bisogno di discutere oltre. Ho avuto quello che volevo. Ho vinto.

Tornata la calma, mi scuso anche con il ragazzo per avergli complicato la giornata. Gli offro un caffé, e alla fine lui se ne va portandosi via il mobile danneggiato. Resta solo un po' di stanchezza, ma la sensazione di avere avuto la meglio è appagante.

Mi sono incazzato, ho reagito, e alla fine è andata come volevo io. Che poi la vita è un po' tutta così, no? Capita spesso qualcosa che non va, o di incontrare qualcuno che prova a fregarti, e alla fine bisogna anche sapersi imporre in qualche modo. È la normalità, e stavolta è andata bene a me.

Ma a stare tranquillo e basta - purtroppo - io non sono proprio capace, e così mi ritrovo a pensare: e se non reagivo? Ora stavo qui, con un tavolino rotto, senza sapere cosa farmene.

E se non potevo lamentarmi? Cioè, non dico per mia scelta, ma se non ne fossi stato semplicemente in grado? Magari avevo paura, magari ero troppo stanco. Se uno è solo, vecchio, ingenuo? Se uno non si regge in piedi perché è malato, se non ne ha nemmeno fisicamente la forza, come cazzo fa a impuntarsi e a non cedere quando ce n'è bisogno? A chi l'aiuta questa gente qua? Chi la salva, e chi la difende?

È una domanda che mi fa vacillare. Mi guardo intorno, nella mia casa, come a cercare una risposta, ma vedo solo quattro sedie nuove, orfane del tavolino al quale le avevo appaiate.

Fuori dalla finestra il cielo è sempre coperto.

E piove forte, sopra le strade grigie.

Simone

09/05/10

Io, quando avevo vent'anni.

Io, quando avevo più o meno 23 anni, ero veramente un soggetto: portavo i capelli lunghi fino a dietro le spalle. Indossavo magliette assurde dei Guns 'n Roses, degli AC/DC o con degli accostamenti cromatici intollerabili sopra a dei pantaloni mezzi rotti, sempre con le scarpe da ginnastica o con le Superga o al limite le Timberland, che con la musica Hard Rock non c'entravano davvero un cappero di nulla: la realtà era che mi vestivo a casaccio, tirando fuori dall'armadio quello che chissà come c'era capitato dentro, e mescolando tutto senza una minima idea concreta di come volevo apparire.

A forza di stare seduto al PC e mangiare pizzette, poi, pesavo più di 100 chili. Non mi muovevo mai, fumavo un pacchetto di sigarette al giorno e non avevo mai fatto la benché minima attività sportiva. Avevo certi brufoli che ancora si vedono i segni, e come facevo tre passi più del solito (un totale di quattro, insomma) mi veniva un fiatone che quasi non mi reggevo più in piedi.

Come se non bastasse stavo sempre incazzato, e litigavo con tutti. Ho voluto consegnare la tesi a tutti i costi, e per far questo ho discusso col professore che non era daccordo. Poi ho litigato coi superiori durante il militare (qui tra qualche mese ti congedi e non ci torni più, mi dicevano gli altri ausiliari. Si può sapere perché rompi tanto le palle?). Poi m'incazzavo coi miei per qualsiasi cavolata, litigavo con le persone scortesi, con la gente sgradevole e con tutti quelli che minimamente non mi parevano al 100% integri e corretti nei confronti di qualsiasi cosa.

Ero veramente stronzo, durante i miei vent'anni. Alla fine lo facevo quasi apposta ad attaccarmi con i docenti, e a più d'uno ho detto: tanto il suo è un esame inutile, e del voto che mi dà non me ne frega un cazzo. Proprio così, solo tutto rosso in faccia e con le mani che mi tremavano per la rabbia.

Se vedevo qualcuno che lavorava poco, lo odiavo profondamente e gli davo del fancazzista. Il fatto è che c'erano pure quelli che lavoravano troppo, e mi stavano sulle palle pure loro perché mi parevano sprecati dietro all'ufficio e ai superiori e alle carte bollate, senza avere una vita vera. Ce l'avevo con l'editoria che tanto non mi avrebbe mai pubblicato, a priori, anche se non ci avevo ancora provato nemmeno. Ce l'avevo con la politica che era una cosa sporca e malata. Ce l'avevo coi dottori che non capivano un cazzo e tanto era inutile farsi curare, con gli ingegneri che erano degli zombi, con gli avvocati che imparavano tutto a memoria e con tutte le altre lauree che riempivano il mondo di rimbambiti incapaci che non avrebbero mai trovato lavoro: una volta una ragazza mi ha fatto vedere il suo libro di non so che materia di filosofia. Piccolo piccolo e sottile, ma dentro magari c'era spiegato il senso della vita. E il mio commento è stato: ma che è, studi sul Bignami?

Anche con gli amici dell'epoca stavo sempre a discutere. Di qualsiasi cosa. Se uno diceva una minima inesattezza scientifica, io come ingegnere mi sentivo in dovere di correggerlo e di aggiungere termini e nozioni di cui non fregava niente a nessuno, ma che servivano a darmi ragione. E se non mi davano retta, be', apriti cielo! Non ho mai accettato di lasciar perdere una discussione, solo per non inimicarmi qualcuno: dovevo averla vinta e basta, a costo della vita.

E insomma, a 20, 23, 25 e anche 27 anni ero così. Una testa di cazzo che si credeva di conquistare il mondo perchè si sentiva più intelligente del 99% dei suoi interlocutori. Non per niente, da bambino avevo addirittura fatto la primina.

Poi, a un certo punto, è iniziata la vita vera. Non quella fatta di voti, serate passate a bere e persone che ti sono amiche perché sei capitato a sederti nel posto accanto al loro. Parlo della vita in cui interagisci col mondo reale, e mezzo secondo dopo il mondo reale ti è già passato sopra come un treno merci sparato a tutta velocià. Mandi lettere col curriculum, e non ti risponde nessuno. I concorsi li perdi tutti. Fai un colloquio e ti dicono che non hai abbastanza esperienza. Poi ne fai altri, e la risposta è sempre la stessa. Vuoi fare l'ingegnere internazionale della FAO o di qualche ONG, ma nessuno ti caga una, due, tre volte, e alla quarta ormai per loro sei troppo vecchio, e addio. Non hai nemmeno trent'anni, ma per alcuni sei già da buttare. E non ti hanno mai guardato nemmeno in faccia.

Alla fine grazie a Dio c'è il lavoro di famiglia, se no erano cazzi amari. Solo resta il fatto che quella è la vita che ti è capitata, non quella che volevi tu, e forse inizi a pensare che tutta questa intelligenza, se anche per caso ce l'avevi davvero, non è che ti sia servita poi a molto.

Poi capita che certi amici li senti di meno. Qualcuno non ti risponde nemmeno più al telefono, e tu stai lì a domandarti il perché. Alla fine c'è un certo confine tra essere amico e essere un rompicoglioni, e se la gente che prima ti sorrideva adesso scappa, be', la colpa non sarà soltanto loro.

C'è un periodo credo nella vita di tutti, o di molti almeno, in cui sembra che stia andando tutto veramente a puttane. E non ci rendiamo conto che si trattava di una situazione verso la quale stavamo correndo sparati e il risultato - tutto sommato - era ovvio.

E insomma io a 20 anni ero così. Un ingenuo perso nel suo mondo, convinto di stare una spanna sopra a tutti e sul punto di schiantarsi contro la realtà. E adesso non lo so quanto sia rimasto, di quel vecchio me stesso: ora, quando conosco qualcuno, ci penso due volte prima di giudicarlo dall'alto in basso. Ora mi rendo conto quando una persona fa delle cose che ti sembrano assurde perché magari sta male, e non è giusto che tu vada lì a dargli l'ultima pugnalata. E in una discussione - in alcune rarissime volte - riesco a cambiare discorso senza necessariamente aver avuto l'ultima parola.

A vederla così, sembrerebbe che io lo detesti proprio questo me stesso da giovane. Ero brutto, ignorante, antipatico al punto di starmi sul cazzo anche da solo. Ma non mi salvavo proprio, da nessun punto di vista?

Ci ho pensato, davvero. Mi sono rivisto con la pancia, i brufoli e i capelli tutti unti, e alla fine mi sono chiesto: ma questo ragazzino di 20 anni, così introverso e incazzoso, ce le avrà avute le sue doti anche lui. O no?

Intanto, dai, una laurea se l'è presa. È vero che per farlo ha litigato con tutti i professori e metà dei compagni di corso, ma insomma ok: almeno il suo lavoro l'ha fatto. Poi a 20 anni ha scritto i suoi primi libri. Cioè, ha scritto i nostri primi libri: ma, se devo essere sincero, io di quei lavori non mi ricordo molto, e mi pare che abbia fatto un po' tutto lui.

Poi, bo', vediamo: che altro? Non si è massacrato di canne come un sacco di quelli che frequentavo. E anche qui, se non sono ancora del tutto rincoglionito in effetti lo devo anche a lui, che si ubriacava e basta. Non è finito in qualche fosso con la macchina (anche se c'è mancato poco) non si è buttato sotto un treno e non ha messo incinta per sbaglio qualche prostituta, che adesso a quest'ora invece di zio ero nonno. Certo che tra le schifezze che si mangiava, il rifiuto di qualsiasi attività fisica e tutto il resto magari una decina di anni di vita me li ha fatti fuori così. Ma, tutto sommato, poteva fare di peggio.

E insomma, vabbe', forse il mio me stesso di 20 anni non era poi così terribile. Era un ragazzino come ce ne sono tanti, magari un po' meno sveglio dei suoi coetanei e un po' troppo intransigente. A volte davvero antipatico e all'occorrenza anche un po' stronzo. Ma insomma, lo ammetto, non era proprio tutto da buttare. Era - in fondo - soltanto me.

E soltanto un pochino più piccolo.

Simone

Una recensione di Codice Aggiunto.


Su 31 Ottobre, dell'amico Glauco Silvestri.

Simone

07/05/10

In mancanza d'altro...

Visto che con la scrittura sono un po' impantanato, mi limito a segnalarvi il nuovo numero della Writers magazine Italia. Contiene anche un mio articolo, probabilmente (visto che non me lo ricordo) tratto da uno dei miei vecchi post sulla scrittura preso dal blog vecchio vecchio, o dal blog vecchio e basta.

Ora prometto che nel week end proverò a tirarvi fuori un raccontino divertente o il solito articolo polemico. O forse studio Biochimica e Fisiologia, e allora niente aggiornamento.

Anzi, ora che ci penso ho anche il turno alla Croce Rossa, per cui mi sa tanto che prima della settimana prossima non tirerò fuori un gran che di nuovo...

Ma non penso che l'attesa vi snerverà troppo. ^^

Simone

02/05/10

Discorsi dei quali mi sono rotto le palle.

Secondo me, Internet ci dà una possibilità incredibile: trasmettere in maniera sintetica e praticamente istantanea quello che pensiamo. Addirittura, strumenti come Facebook consentono di comunicare con gli altri in tempo reale, come se stessimo discutendo con una persona che abbiamo davanti piuttosto che con qualcuno che vive chissà dove. Voglio dire, c'è addirittura una chat: cosa ne pensi tu? Cosa ne penso io? Parliamo, ci confrontiamo e - se tutto va per il verso giusto - finisce che trombiamo pure.

Fatto sta che, da qualche tempo, ho iniziato ad avere l'impressione che - per qualcuno - questo comunicare stia diventando quasi un obbligo, piuttosto che una libertà. Spesso mi capita di incontrare degli articoli sui blog, dei link su Facebook o dei contributi davvero interessanti sparsi su forum e siti vari. Solo che sono praticamente sommersi da una tonnellata di roba arrivata dopo: quanti blogger aggiornano il loro sito con un nuovo post, quando la gente sta ancora discutendo su quello passato? Fateci caso. È una cosa che capita spessissimo, e a me sembra una sorta di bulimia comunicativa. Un autismo in versione social network in cui si dice una cosa e poi se ne aggiunge un'altra subito dopo, completamente scollegata e riferita a tutt'altro, senza curarsi più del discorso prededente e senza aspettare che i nostri eventuali interlocutori abbiano almeno finito di risponderci.

Poi, ci mancherebbe, non c'è niente di male: ognuno fa quello che vuole del proprio tempo, e se si diverte allora buon per lui. Meglio parlare troppo, piuttosto che restarsene sempre zitti. Solo che questo commentare, dire, aggiornare di continuo, porta necessariamente a un abbassamento anche dei contenuti. Nessuno è in grado di produrre opinioni interessanti in quantità industriale e senza interruzioni. La cultura richiede studio, tempo, elaborazione e anche un po' di coraggio e umiltà nel saper cancellare e riscrivere. Non è solo un'ammucchiata di parole buttate lì, tanto per riempire un foglio di carta, ma un processo che richiede tempi di assimilazione e di elaborazione.

Quello che voglio dire è che, tra le tonnellate di roba di cui è invaso il mio reader di feed, la mia email o il mio account di facebook, il più delle volte mi sento aggredito da affermazioni qualunquiste, razziste, scontate o semplicemente già sentite e risentite al punto da essere inutili. E a voler discutere con gli autori di certi messaggi si rischia pure di ritrovarsi soli, insultati e anche un po' disprezzati dai tanti che - inconsciamente - vivono secondo l'assioma che non qualunquista equivalga a stupido o decerebrato.

Dico inconsciamente perché quasi nessuno, se gli chiedi di approfondire un determinato discorso, è davvero così assolutista, scontato o intransigente come può sembrare in una cosa scritta in fretta e pubblicata online. Resta il fatto, però, che mettersi lì a scrivere una risposta seria ed articolata richiede tempo e fatica. E unito alla certezza che entro poche ore la discussione che si sta facendo verrà rimpiazzata e messa da parte da altri discorsi, questo è veramente il colpo finale che mi fa pensare ma chi me lo fa fare? e chiudere il browser di fronte a una conversazione all'interno della quale non ho la forza di impelagarmi.

E poi, diciamola tutta: io non penso di essere un genio, di essere speciale o di aver capito qualcosa più degli altri. Se in tanti ripetono all'infinito certe loro verità magari è perché hanno ragione loro, e a mettermi lì a discutere per fargli cambiare idea sarei solo una persona arrogante. Insomma io non è che mi senta superiore a qualcuno, anche perchè non saprei bene nemmeno di chi o per quale motivo. Solo che certe cose mi hanno davvero un po' sfiancato, e vorrei dedicare il mio (poco) tempo libero a persone e a discussioni che mi portino a ragionare anche rispetto ad argomenti nuovi e più stimolanti. Per cui, insomma, eccoveli:

Discorsi con i quali mi avete rotto le palle:

- Ieri si stava meglio di oggi e la natura (generica, sia questa un corso d'acqua, un piatto di maccheroni o un serpente a sonagli) è meglio dell'industrializzazione: quanti vostri parenti sono morti giovani? Ora ripetete la stessa domanda a vostro nonno.

- Qualsiasi crociata contro l'editoria a pagamento: a questo punto vi assicuro che il vostro punto di vista è ormai chiaro. E no, se siete a favore le cose non migliorano.

- Viviamo in un regime e voi (ovviamente) siete i partigiani: del resto, la storia è piena di regimi in cui gli oppositori esprimevano liberamente il proprio dissenso su un blog.

- Il mondo finirà nel 2012: a parte che quello era solo il marketing di un film merdoso, il calendario che ho appeso alla parete termina il 31 Dicembre del 2010. Se fossi in voi, sarei ancora più preoccupato.

- Qualsiasi tipo di complotto fantapolitico che vi siete sognati mentre vi facevate le canne: tipo che qualcuno pubblica libri orrendi per conquistare il mondo. Ma come no? E abbiamo anche scoperto il colpevole.

- Voi siete di sinistra e odiate Berlusconi, oppure siete di destra e odiate chi odia Berlusconi: il problema non è avere delle idee politiche, che anzi sarebbero auspicabili. Il problema è che la politica non è il calcio e le elezioni non sono il derby... anche se questo rende effettivamente tutto molto più noioso.

- Recensioni negative di film la cui assenza di pregi è insita nel titolo stesso: ma come, Sega VII è brutto... e non è nemmeno un film porno? Super mini spie ninja alla riscossa ha una sceneggiatura un po' infantile? E io che dopo averlo visto non ho dormito per due giorni! E questo vale anche per dischi, giochi, fumetti e serial televisivi, ovviamente.

- Qualsiasi considerazione scientifica che dimostra che non sapete un tubo di quello di cui state parlando: tipo, ma voi sapete davvero cos'è una cellula staminale, come si vivrebbe senza automobili o come si progetta una centrale nucleare? Al punto da poter proporre soluzioni alternative, dite? Ok: se è così, allora scusate.

- Tutti i discorsi che equiparano gli esseri umani agli animali: non che io non la pensi allo stesso modo! Tant'è che preferisco leggere il blog del vostro gatto.

- La società si muove in un determinato modo perché la gente vede i film horror, legge i libri fantasy oppure - vade retro! - guarda la televisione: e infatti questa cosa la dite perchè l'avete sentita alla TV, e ne siete stati indissolubilmente convinti. Poi tra un po' se la prenderanno con i messaggi che stanno nei cioccolatini, e gira e rigira andrà a finire che è quello che scrivo io che rincoglionisce la gente. Ma tanto non dovete leggermi per forza: l'importante, è che clicchiate sui bannerini.

Ce ne sarebbero tanti altri, ma l'ultimo che mi viene in mente ora è questo:

- Dichiarate che preferireste vivere in un qualunque altro paese del primo, secondo o terzo mondo piuttosto che nel vostro dove c'è la disoccupazione, i politici corrotti, la povertà, la fantascienza non ha il giusto peso, ed è pieno di multisala dove se non trovi posto ti tocca vederti un film che nemmeno ti piace e fanno pure mezzora di pubblicità: ma se quando siete all'estero non fate che ubriacarvi e andare a mignotte per poi passare la giornata stravaccati sulla spiaggia non vuol dire che quella è la vita che fareste tutti i giorni. Non necessariamente, almeno. O magari non sempre.

Ora che ci penso... forse, su quest'ultimo discorso, non avete poi tutti i torti, e fate bene a ripeterlo all'infinito per spingere all'emigrazione i mediocri scrittori di fantascienza nostrani. È veramente un'ottima tecnica.

In ogni caso, per liberarvi di me, dovrete inventarvi di meglio.

Simone