Il 7 Ottobre 2010, dopo il test di ammissione, due anni di frequenza obbligatoria e migliaia di ore passate a ingobbirmi e inquartarmi sui libri, dopo insomma un percorso lento e pesante che sembrava non finire mai, è finalmente il momento di entrare in ospedale per partecipare al mio primo tirocinio.
L'appuntamento è alle 9 meno un quarto fuori dal Policlinico, e come da copione prima arrivo in ritardo e poi mi perdo per cercare gli altri. Per fortuna qualcuno viene a prendermi mentre sto vagando per il piano sbagliato del padiglione giusto (tutto sommato, ci avevo quasi preso) e faccio in tempo a sentire gli ultimi momenti della presentazione che l'assistente del professore sta facendo: una volta sistemate le formalità iniziali saremo divisi in gruppi di 3 o 4 persone, e ci porteranno a vedere dei pazienti.
Mentre indossiamo il camice, mi sento un pochino a disagio: alcuni studenti sembrano già dei mezzi primari, con tanto di fonendoscopio attorno al collo e l'aspetto da dottore figo. Io invece penso che per i docenti resto uno che non sa fare nulla, mentre per i pazienti un camice vale l'altro e poi chissà che cosa si aspettano. Non essere né carne e né pesce è una situazione che ho sempre detestato, e io il fonendoscopio me lo metto in tasca.
Una volta pronti, come preventivato, ci dividono in vari gruppetti e ci accompagnano in un reparto.
Nelle mie fantasie di studente, che credo assomiglino alle fantasie di tutti, il tirocinio in ospedale è un qualcosa in cui tre o quattro dottori usciti da qualche serie televisiva visitano, diagnosticano, operano e dimettono pazienti alla velocità della luce, mentre con l'altra mano spiegano a me (il rapporto sarebbe di uno studente ogni cinque docenti) quello che stanno facendo. Una o due giornate di riscaldamento, e poi inizio a fare tutto io mentre loro controllano appena un po' in disparte. Al terzo giorno mi danno direttamente la laurea, poi un week end di vacanza ed eccoci già belli e pronti per iniziare la specializzazione.
La realtà è che l'assistente ci porta in una camera con dei letti e due signore ricoverate. Questi sono i pazienti – ci dice, mentre praticamente sta già uscendo dalla stanza – voi fate l'anamnesi, e poi ci rivediamo tra una mezz'ora.
Non dico che sia un momento di vero e proprio panico, ma comunque io e gli altri tirocinanti ci scambiamo degli sguardi come per dire: e mo', che se inventamo?! Tra l'altro non avrò tutta questa esperienza ma – secondo me – quando fai certe espressioni di fronte a loro, non è detto che i pazienti si sentano particolarmente rassicurati. Sul momento, io penso che ho sempre il fonendoscopio in tasca e visto che per quanto ne so anamnesi e visita medica potrebbero essere la stessa cosa (e tutt'ora non escludo che lo siano) potrei pensare di cavarmela ascoltando il battito cardiaco e facendo finta di capirci qualcosa. Il problema è che ho appena scoperto che il fonendoscopio ha un verso con cui va inserito nelle orecchie, ma nessuno mi ha mai spiegato nemmeno da che parte va infilato. Insomma: meglio lasciar perdere.
Nonostante le premesse, in qualche modo ce la caviamo: chiediamo l'età, motivi del ricovero, interventi subiti, sintomi, farmaci e un po' tutto quello che ricordiamo dalle lezioni fatte in aula o che - semplicemente - ci viene in mente lì per lì, evitando solo di chiedere nome e cognome perché a detta di alcuni membri del gruppo (gli altri due) corriamo il rischio di violare la privacy. Secondo me non è raro che un medico chieda a qualcuno come si chiama, comunque lasciamo perdere: alla fine scriviamo tutto quello che riusciamo a scoprire, io li chiamo Paziente 1 e Paziente 2, e poi vedremo che ci dirà l'assistente. Fortunatamente, in tutto questo le signore sono gentilissime: hanno capito la situazione, e sembra che stiano un po' al gioco. Una di loro aveva un morbo di non so chi - che non ho capito - ma visto che chiedergli di fare lo spelling mi pareva poco professionale mi sono limitato ad annuire e a scarabocchiare qualcosa, dandomi il tono di chi ha tutto sotto controllo.
Alla fine esce fuori che ho già una prima laurea (visto che la mia, di privacy, evidentemente è sacrificabile alla causa). E se da un lato le mie pazienti mi fanno un sacco di complimenti e mi dicono che sono bello e bravo, dall'altro il nostro ruolo sanitario diventa sempre più improbabile. Alla fine, qualcuno del personale ci fa notare che quel reparto è piccolo, che siamo in tanti e visto che loro poverini hanno da lavorare potremmo anche andarci a prendere un caffè. Che poi arriverà il momento in cui se non ci siamo noi sembrerà che debbano chiudere l'ospedale, e guai solo ad andare in bagno per cinque minuti: su questo, ci potrei scommettere.
Insomma, lasciamo il reparto. Io insieme al caffè ci metto pure una sigaretta, e poi andiamo in un'aula insieme all'assistente di prima. Questa parte della giornata mi pare più interessante: ci viene mostrato come controllare il collo e la testa di un paziente, poi lo proviamo a gruppetti su di noi e dopo un po' ci raggiunge anche il professore, che stava operando. Con lui facciamo una specie di gioco per imparare a riconoscere e classificare le tumefazioni, e poi commentiamo le anamnesi fatte in precedenza: viene fuori che il morbo misterioso di cui ho parlato prima aveva causato un'aumentata produzione degli ormoni tiroidei, dalla quale era conseguito un aumento dei recettori beta adrenergici sul muscolo cardiaco che – in ultima istanza – era alla base dell'ipertensione di cui soffriva la paziente.
In realtà è tutto ancora un po' più complicato di così, ma tutto sommato penso di aver reso almeno l'idea. E mentre il professore va avanti con la spiegazione, io mi domando se quando sarà il momento riuscirò mai a ricordami tutte queste cose, se avrò le idee chiare e se saprò fare tutti i collegamenti che servono. All'improvviso mi sembra di stare di fronte a una montagna fatta di libri, tomi, enciclopedie e atlanti, e solo a pensare a tutto quello che devo ancora studiare mi sento già stanco.
Tornando a casa, penso che tutto sommato come primo giorno è andato bene: non è proprio quello che immaginavo, anzi non è quello che immaginavo per niente, ma credo che qualcosa mi sia rimasta davvero. Da qui alla fine dell'anno di tirocini ne restano da fare ancora un bel po', le nuove pagine da memorizzare sono una quantità incommensurabile e – per forza di cose – qualcosa in più finirò per impararmela.
Resta solo da capire se alla fine scalerò davvero la montagna, o se finirò sfracellato in qualche crepaccio nel tentativo. Ma insomma, per ora io non la farei tanto lunga o troppo melodrammatica: diamo tempo al tempo, e facciamo un passo (e un tirocinio) alla volta.
Dal canto mio, inizierò col dare uno sguardo a qualcosa sul morbo di Basedow: ho come la sensazione che, all'esame, lo chiedano.
Simone
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