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Malato dell'800: l'iPad aveva una connessione lentissima. |
La sera prima la passo - come tutte le sere degli ultimi tempi - a cercare dettagli relativi alla mia operazione su Internet.
Vengono fuori certi filmati che ti cadono tutti i capelli. Siti che raccolgono opinioni contrarie e angoscianti. Esperienze di gente che si lamenta di sequele, inesattezze, dolori, traumi, effetti collaterali e chi più ne ha più ne metta.
Mi ripeto che su Internet ci vanno solo quelli che hanno da lamentarsi. Gli insoddisfatti e gli insicuri. Su Internet ci scrivono i coglioni come me o chi ha voglia di prendere per il culo la gente o chi tanto non sarà contento mai. Questa consapevolezza mi rassicura un po'. Un pochino. Ma la notte comunque dormo poco.
Sono in clinica alle 9 della mattina successiva. Qualche formalità burocratica, poi mi accompagnano in camera e mi danno un letto.
Verso le 10 iniziano a portare i pazienti in sala operatoria. Le barelle passano per il corridoio fino all'ascensore, e poi di nuovo dall'ascensore fino alle stanze. Spero ogni volta che tocchi a me, ma invece tocca sempre a qualcun altro mentre quel corridoio l'imparo a memoria ripercorrendolo una, dieci, cento volte avanti e indietro.
Le ore non passano mai. Ogni minuto che aspetto è un minuto in più di convalescenza che mi toccherà scontare dopo. Non si può bere, non si può mangiare, non ci si può nemmeno accendere una sigaretta. Sei come in una specie di limbo dove non succede e non puoi fare nulla a parte passeggiare o farti venire sonno davanti ai programmi della mattina in TV.
Verso le 2 un'infermiera entra in stanza e mi dice che è il mio turno. Mi affretto a indossare quel camice ridicolo che ti lascia tutto scoperto come ti muovi un attimo di troppo. Poi entro nel letto e mi infilo sotto alle coperte.
Si parte: mia mamma mi saluta accarezzandomi sulla fronte, mentre mi spingono verso l'ascensore. Le luci del corridoio passano sopra di me, mentre a destra e a sinistra i numeri delle varie stanze scorrono all'indietro in una specie di conto alla rovescia.
Saliamo con l'ascensore, e mi lasciano in una specie di sala d'attesa. Sento i dottori che parlano, qualcuno telefona e altri sono indaffarati a spostare barelle o a discutere di interventi o di chissà che cosa. Mi tiro su le coperte fino al collo, perché fa un freddo della Madonna.
«Io sono l'anestesista» un signore si accosta al letto e mi dà la mano. Poi mi attacca degli elettrodi per il monitor dell'elettrocardiogramma e se ne va.
Arriva una seconda barella con sopra una ragazzina sui 14 anni. Ha la faccia di una che la madre gli ha appena buttato al cesso tutti i trucchi comprati di nascosto e il ragazzo l'ha mollata e le sue amiche non la cercano più e la sua vita è finita e che suo padre gli ha detto che vuole che studi Ingegneria. Vorrei provare a tranquillizzarla un po', ma due infermiere aprono un separé tra noi due e non riesco più a vederla.
Passeranno un paio di minuti, poi l'anestesista torna al mio letto e mi spinge verso la sala operatoria vera e propria.
Mi fanno scivolare su un lettino più piccolo, e in un attimo sono circondato da persone con tute azzurre, verdi, blu, rosa... ma quanti sono? Sembra una specie di film del terrore, ci manca solo la musica col teremin o qualche scala di tastiera superveloce per essere davvero tale e quale.
Qualcuno mi allenta il camice. Qualcun altro mi sposta tirandomi come se fossi un sacco. Mi posizionano un saturimetro su un dito, mentre nell'altra mano mi infilano un ago cannula e sento un male cane che davvero non me l'aspettavo.
«Adesso rilassati mentre il farmaco fa effetto» mi dice l'anestesista. «Così ti addormenti».
«Ma non dovevo fare prima la spinale?» chiedo.
Lo so che sembro l'apoteosi del rompicoglioni all'ennesima potenza, che non si sta buono manco con 10 persone intorno armati di aghi e lame taglienti. Però pensavo di aver capito diversamente.
«No, ti addormentiamo. Niente spinale».
A quel punto io specifico chiaramente il nome del mio intervento, assicurandomi che comunque non è che per caso ci fosse stato uno sbaglio. Lo so: ho visto veramente troppi telefilm coi dottori del cazzo, e comunque mi addormento senza nemmeno sentire la risposta.
Dormo che è una favola. Sogno qualcosa anche, ma non ricordo cosa. Mi pare di aver dormito per ore, come quando sei proprio stremato e dormi che te lo gusti che non ti pare vero... e poi però a un certo punto ti svegliano che non volevi, e hai ancora troppo sonno.
«Abbiamo finito» il chirurgo mi sveglia con una carezza. E poi sparisce, o mi riaddormento io. Non lo so, non ci sto capendo un cazzo.
La prima cosa che riesco a razionalizzare, è che ho un dolore terribile. Una roba che pensi solo che non è possibile che ti faccia davvero così male: capita che uno prende una botta col mignolo su uno spigolo o una storta giocando a calcetto e allora dice che
s'è fatto male e sta lì che si lamenta e pare chissà che cosa... ecco, avete presente? Be', invece no: è una cosa troppo peggio. È un dolore assurdo come non l'hai sentito mai, che sta lì e che non passa e per quanto ti agiti e ti lamenti mi sa che a calcetto non ci rigiochi comunque per un bel po'.
«Come va?» l'anestesista mi sta spingendo di nuovo nella sala d'attesa. «L'intervento è andato benissimo».
«Mi fa male. Ho un dolore importante».
Questa espressione del
dolore importante non me l'ero manco preparata. Un termine entrato dentro in qualche modo da qualche reparto, e rispuntato fuori dal mio subconscio che anche in un momento del genere non voleva bruciarsi l'occasione di spararsi le pose da studente di medicina secchione sfigato. Il subconscio - non per niente - sta sulle palle un po' a tutti.
L'anestesista indica una pallina di plastica che mi hanno appiccicato al braccio.
«Hai già l'antidolorifoco, adesso ti diamo qualcos'altro».
Quello che ricordo dopo sono una serie di scene tra la sala operatoria e la mia stanza, perché lo spostamento ci sarà stato ma non è che mi ricordo tanto che cosa è successo. So solo che a un certo punto stavo con le flebo, gli antidolorifici e tutta la droga del mondo, con mia mamma da una parte che pregava e io che ogni tre secondi facevo un grugnito come uno che lo sgozzano e mi giravo e rigiravo per trovare una posizione nella quale mi sentissi un po' meglio, ma che tanto non c'era.
E poi quella sete. Come se avessi masticato delle palline di sale, mentre correvo di corsa al Circo Massimo in pieno Agosto con addosso la tuta da sci. Sugli effetti collaterali dei farmaci ci scrivono cose tipo: neutropenia, neurite periferica, al limite diarrea se proprio uno è fortunato. Non ci scrivono mai:
ti viene una sete che manco a li cani, questo no. E vorrei tanto sapere perché.
Ma non mi lasciano bere: non si può, è vietato come qualunque altra cosa lontanamente piacevole all'interno di ospedali, cliniche e areoporti, e comunque ho già una flebo di fisiologica attaccata alla vena. Vedo il tubicino che mi entra nella mano: ripenso a quando spiego ai pazienti che come idratazione basta quella, e che di bere non hanno realmente bisogno... e poi mi mando affanculo da solo.
Passa un'ora, e sto giusto appena un attimino meglio.
Passano due ore, e va meglio. Riesco anche a scambiare qualche parola con mia madre che non prega più, e a scherzarci sopra.
Dopo tre ore gli antidolorifici hanno funzionato, e mi fa ancora male tutto ma è un male che tutto sommato non è più niente di che.
Arriva l'ora di cena, e arrivano una specie di brodino con dentro il niente, e quella che a un esame autoptico potrebbe essere una mela frullata. A portarmi il vassoio è una signora piccolina, anzianotta, non indossa un camice ma una sorta di palandrana che le copre il vestito solo sul davanti e la fa sembrare una cameriera. E io ho tanta di quella fame che vorrei abbracciarla e chiederle di sposarmi e portarmi la pastina e la mela per tutto il resto della nostra vita: noi due, soli e insieme per sempre.
Tirarsi su per mangiare è un'impresa, ma ho un sacco di tempo. Il brodino mi leva quell'arsura demoniaca, e già mi sento rinato. La mela frullata è dolce, e dopo quelle due ore interminabili che sono passate è una sensazione così bella che mi scendono quasi le lacrime.
«Era buonissima» dico alla signora di prima, tornata a recuperare il vassoio. «La cosa più buona che abbia mai mangiato».
Lei si mette a ridere, e scuote un po' la testa come a dire che invece no: non è buona per niente.
«Si vede che avevi proprio fame» dice, prima di andarsene.
La notte dormo mezz'ora ogni ora. Mi addormento e mi sveglio. Mi sveglio e mi riaddormento. A un certo punto - e non so come - il catetere s'intreccia con la flebo, e facendo un movimento col braccio gli do uno strattone con tutta la forza che ho. Ma guardiamone il lato positivo: ogni volta che capiteranno discussioni sugli aneddoti dolorosi per decidere a chi è capitato di farsi più male nel corso della vita, vincerò sempre e sicuramente io.
Al mattino mi visitano di nuovo, e quando mi levano il catatere esclamo il "ma porca troia!" più profondamente sentito della mia esistenza. Poi verso le dieci passa l'infermiera, mi chiede se ho fatto pipì e io niente: non mi scappa.
Alle undici passa di nuovo, e io di nuovo nulla: non la devo fare.
Verso mezzogiorno mi scappa un pochino, ma non riesco a farla.
All'una sono io a cercare l'infermiera perché mi scappa troppo, ma non ci riesco. Lei mi dice che non fa niente, e di riprovare più tardi.
Alle due me la sto facendo sotto ma niente: ci provo e ci riprovo, ma la sensazione è come di dover pisciare attraverso il granito e mi viene da piangere solo al pensiero che mi rimettano il catetere, e che poi - cosa peggiore di tutte - me lo tolgano di nuovo.
Alle due e mezza viene a trovarmi mio fratello. Tempo 3 minuti e mi fa incazzare di brutto, scatenando così anche il miracolo. Esco dal bagno entusiasta per avvisare le infermiere e i medici e gli operatori sanitari. Gli altri pazienti, gli operai che vedo dalla finestra dall'altra parte della strada, tutti quanti devono essere informati che ce l'ho fatta e partecipare ai festeggiamenti: devono saperlo tutti!
E da lì in poi è stata tutta in discesa. Medicazioni, farmaci, visite col chirurgo, dolori da tenere a bada con altre medicine... ma il brutto è stato davvero solo in quelle due ore dopo l'anestesia, un po' la notte e fino alla mattinata successiva, quando pareva impossibile anche l'operazione più banale.
A ripensarci, adesso che queste righe sono poco più di un racconto, penso di poter dire di essere stato male. Poco male - tutto considerato - e per poco tempo, ma è stato così. Diciamo che penso di aver avuto un piccolissimo assaggio di cosa vuol dire dipendere totalmente da qualcun altro, perché da solo non ce la puoi proprio fare. Ho capito che anche un minimo di gentilezza in più può cambiare tanto di come vivi una situazione.
Ho capito che quando qualcuno sta male non è come al cinema o nei film, che pare quasi una cosa figa che poi alla fine sono tutti felici o - male che vada - alla fine muore e non ci si pensa più: c'è un livello di
stare male che arriva ad annientare le persone. Le strappa via dal mondo e le porta in una dimensione dove non riescono a interagire con nient'altro se non la propria malattia e i propri bisogni più basilari.
Ogni volta che una persona sta male e non riusciamo ad aiutarla, ogni volta che qualcuno soffre e viene lasciato solo, e ogni volta che guardiamo al dolore degli altri con indifferenza, è una tragedia.
E non bisogna essere medici, o ingegneri, o laureati in chissà che altro per capirlo, per sdegnarsi, per voler fare qualcosa, per voler aiutare e curare. Bisogna semplicemente essere umani.
Simone