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Questo con l'emogas non c'entra nulla. |
NOTA: se vi fanno impressione i prelievi, leggere questo post potrebbe uccidervi. Io vi ho avvisati...
Pomeriggio in reparto un po' caotico: pazienti da tutte le parti, troppi dottori e interni e specializzandi e tirocinanti e infermieri che entrano e escono dai box.
Gente che passa per i corridoi, barellieri, personaggi misteriosi che appaiono e scompaiono di tanto in tanto, e che in quasi un anno non ho ancora capito chi sono. La solita confusione del Pronto Soccorso, insomma.
Non è che oggi stia combinando molto: ho letto un elettrocardiogramma che mi hanno dovuto spiegare, ho seguito un'ecografia della quale ho capito poco. Ho spostato qualche barella e visto una TAC... ma insomma, davvero niente di che.
A una certa ora c'è da fare l'ennesimo emogas (il prelievo dall'arteria del polso) a uno dei pazienti sotto osservazione.
«Chi vuole farlo?» chiede il professore, rivolto genericamente al gruppo di studenti e specializzandi che stanno lì in quel momento.
Attimo di tensione cruciale:
Dovrei dirgli che voglio farlo io. Penso.
Però e se poi faccio un casino e sono pure passato avanti a chi era più bravo, e magari il paziente è uno che si lamenta o ci sono i parenti incazzosi... come faccio?
E nel frattempo che io produco tutto questo impavido ragionamento, uno degli specializzandi ha già preso la siringa e l'ovatta col disinfettante e il cerotto. E mentre io sto ancora visualizzando la scenetta delle mie paranoie mentali come nei telefilm sugli ingegneri che si iscrivono a medicina, lui è già lì accanto al paziente. E vabbe', c'ho pensato troppo: sarà per la prossima volta.
Decido comunque di fare presenza. Raggiungo lo specializzando, e lo trovo che sta sentendo il polso del malato per cercare l'arteria e decidere dove bucare.
«Posso sentire pure io, così imparo?» chiedo.
«Certo!» fa lui, scansandosi per farmi spazio.
Io metto due dita, e inizio a cercare il battito. Il paziente non è gran che collaborante, e ha pure un polso molto leggero di quelli che non si sentono: già fare gli emogas è di per sé un casino, ma questo insomma è peggio del solito.
«Non è tanto semplice» dice lo specializzando, leggendomi tipo il pensiero.
Io penso che in effetti non è semplice manco per niente, ma facendo appello a tutte le conoscenze anatomo-chirurgiche impartitemi dagli infermieri del reparto penso che - secondo me - io l'arteria la sento abbastanza bene.
«Sta qua» dico, puntando le dita in punti privi di un interesse anatomico sufficiente a meritarsi un nome. «Pulsa piano, ma è questa».
«Vuoi provarci tu?»
Altra tensione, crucialissima.
Adesso, oltre a fare una figuraccia, p
asso pure per quello che fa tutta la scena che dice che lui è capace a fare le cose... ma poi, invece, no.
«Certo» riesco a rispondere, stavolta all'interno del limite oltre il quale è tardi e lo fa un altro.
Ora qui c'era tutta la descrizione di come metto i guanti e il disinfettante, e di come i vasi si trovano meglio coi polpastrelli liberi perché col guanto sopra non senti niente e tutto il resto, ma ve l'ho cancellata che era anche più inutile di quest'ultima frase.
Salto invece subito al momento in cui in una mano ho la siringa, mentre coi polpastrelli dell'altra sento l'arteria radiale che pulsa sotto le dita. Ho bene in mente l'infermiera brava che mi ha spiegato che non devo infilare l'ago sperando di prenderci per caso, ma devo sentire la pulsazione e puntare a seguire quella. Per cui insomma mi concentro, sento il punto giusto e prendo bene la mira.
Infilo l'ago. Sento il paziente che si lamenta mentre la punta di ferro buca la pelle e va dentro ai tessuti. Vado giù fino al punto dove mi sembra che dovremmo esserci... ma niente: niente sangue. Non l'ho beccata.
Restiamo calmi.
Le dita stanno sempre sull'arteria, e la siringa è sempre nel polso. Solo che le due cose non si sono incontrate. Ma è una situazione normalissima, e non c'è niente che non va: solo gli infermieri super esperti ci prendono al primo colpo, a tutti gli altri succede sempre così.
Torno un po' indietro con l'ago, come mi hanno insegnato. Cambio l'inclinazione puntando dove sento ancora pulsare, e affondo di nuovo.
Ed ecco cha nella punta della siringa compare uno schizzetto rosso. Vuol dire che sta volta ci siamo, ho fatto centro.
Il sangue esce da solo a pressione, rosso brillante, e riempie in fretta quei 2 millilitri scarsi che ci servono.
«Queste sono le soddisfazioni della vita» ridacchio, sollevato, rivolgendomi allo specializzando. «Penso di avere finalmente capito come si fa».
Finito. Tolgo l'ago, metto ovatta e cerotto e vado col campione verso la sala dove c'è la macchina per l'analisi. Non mi pare nemmeno di camminare, ma mi sento tipo a mezzo metro da terra.
E nell'altra sala, trovo una paziente che è deceduta.
Il marito che abbraccia la salma. I figli subito dietro, in lacrime.
Sento le mie emozioni che fanno le montagne russe: vorrei essere felice e triste allo stesso tempo. Vorrei sia fregarmene che provare compassione. Vorrei solo pensare ai cazzi miei, ma anche sentirmi una merda.
Sono finito in un vortice dimensionale dove i mondi collidono e si possono vivere due esperienze antitetiche in una botta sola. O forse questo è solo il mondo reale così com'è e come funziona e io - per la prima volta forse nella mia vita - sono riuscito a viverne interamente un pezzettino.
Non lo so. Mi sento come se oggi mi fosse successo qualcosa che non capita sempre, ma che in fondo dimostra un'ovvietà. Eppure davvero non so descriverlo meglio. A parole non so spiegarlo - nemmeno a me stesso - meglio di così.
Simone