15/06/13

Il dolore degli altri.

Immagine di dubbia attinenza presa da Wikipedia.
In reparto c'è una signora, giovane, con un linfoma.

Ha fatto una terapia che non ha funzionato. Poi un'altra che non è servita a niente, e infine la terza e ultima che non ha cambiato un bel tubo.

Ora sta a letto con una mascherina a pressione che l'aiuta a respirare. Sembra stanca, e ha le gambe magre magre di chi non sta più bene da troppo, troppo tempo.

Con lei una sorella che l'accudisce. Parla coi professori, e poi di nascosto la vedo cercare su internet su siti che parlano di terapie, anticorpi monoclonali, possibilità ancora da tentare.

Arriva lo pneumologo per il consulto, e vado dietro a lui per vedere le radiografie: nelle immagini del torace si vede solo bianco insieme a opacità e iperintensità e a spazio occupato da qualcosa che non serve a respirare. Un pezzettino di polmone nascosto da una parte resta lì a fare il suo lavoro, ma dopo di quello è finita.

«Che si fa a un paziente in queste condizioni?» domando io.

E la risposta è un laconico: "niente".

Sono pochi mesi che frequento l'ospedale con una certa regolarità, e di storie del genere potrei già elencarvene un'altra dozzina e rovinarvi per sempre il resto del 2013. Ma a che scopo? Il copione è sempre quello di una brutta puntata di qualche serie TV: qualcuno sta male, qualcun altro si occupa di lui, e tu sai già che siamo arrivati oltre il punto in cui la medicina può fare qualcosa, e che le cose finiranno malissimo.

Ho sentito spesso dire che il dottore migliore è quello con tanta empatia. Quello che si interessa dei pazienti e quello che si preoccupa per loro. Ma sarà vero? Penso a qualcuno freddo e distaccato che fa la sua parte, e una volta tornato a casa si scorda del lavoro e di tutto ciò che può essere successo, e - tutto sommato - lo invidio.

Io invece tante cose me le sento tutte addosso. Ci penso la notte, e diversi giorni dopo mi rendo conto che sono ancora con me.

E immagino che col tempo impari a gestirle meglio e a mettere un freno a queste emozioni alle quali assisti ma che - tutto sommato - non ti appartengono davvero. Penso che alla fine uno, semplicemente, finisca con l'abituarsi. Ma non so fino a che punto puoi diventare realmente così distaccato se non lo eri già un po' di tuo.

Poi l'altro giorno arriva una donna sotto chemioterapia. Con lei l'oncologa che la segue e che ha visto che qualcosa che non va e - insomma - dovrà fare un piccolo intervento.

La dottoressa si muove per il reparto, veloce e leggera come se non avesse peso. Chiama chirurghi, cardiologi e internisti e tutti sono inconsuetamente gentili e fanno quello che chiede lei.

Parla con gli infermieri per la terapia, rassicura la sua assistita. Sorride sempre, e vorresti stare tutto il giorno a sentirla parlare. Me l'immagino mentre incoraggia qualcuno che non ce la fa più, mentre spiega come comportarsi a una famiglia sconvolta. Mentre piange di nascosto per una brutta notizia da dare a un paziente... e nel giro di pochi minuti, credo già di innamorarmi di lei.

Dopo un po' è tutto organizzato: la situazione è sotto controllo, i colleghi hanno fatto il loro dovere e quando la ragazza va in sala operatoria la dottoressa la saluta con una carezza sul viso.

«Qui ho finito». Dice subito dopo, rivolgendosi a noi.

E in un attimo saluta, e sparisce oltre la porta del reparto. Leggera come una farfalla.

Simone

9 commenti:

Dario Tobruk ha detto...

Ciao Simone, anche io inizialmente mi portavo continuamente l'ospedale a casa e nella testa, anchio invidiavo la forza dei grandi che dopo aver fatto il loro dovere uscivano leggiadri fuori dal reparto. Solo dopo un pó ho capito: per lasciare andare bisogna accettare la morte e la malattia. come componenti umane inseparabili che possono capitare a tutti in ogni momento, fa parte del gioco e noi giochiamo in prima linea. Ma non siamo nient' altro che questo, non si possono salvare tutti come nemmeno noi nesiamo immuni,l'accettazione dello stato di cose porta almeno due cose...ridimensiona la nostra responsabilità rendendo un po piu sostenibile lavorare e ti dara il giusto significato del lavoro: fai tutto quello che ti è possibile, per il resto ricorda che sei solo un essere umano

Simone ha detto...

Grazie Dario, proverò a darti ascolto.

Simone

Ariano Geta ha detto...

Quando sono stato ricoverato in ospedale una volta l'ho buttata lì la battutina a un infermiere: "Mi sa che a voi quello che succede non vi fa più né caldo né freddo, se no se vi lasciaste coinvolgere emotivamente andreste al manicomio".
Risposta: "Entro certi limiti. Se il paziente è molto anziano rimaniamo più freddi, tipo 'Purtroppo prima o poi si muore', ma se sono giovani ci restiamo male anche noi e ci piangiamo'..."

Anonimo ha detto...

Per esperienza posso dire che a queste cose non ci si abitua mai. E non parlo solo della mia esperienza, ma di quella raccontata dai colleghi più anziani, sia di età che di servizio, che con situazioni simili non ci fanno mai l'abitudine. Secondo me nessuno può rimanere tanto distaccato, neppure il più rigido e freddo medico di questo mondo. Ci sono solo differenti modi di reagire e, soprattutto, di esternare.
Io son sempre stato molto umano e vicino al paziente e mi è capitato solo una volta di portarmi a casa il dolore di qualcuno... Questo qualcuno non ha più prospettive di vita e sembra essere ormai in un mondo completamente suo. Vicino a lui sempre i parenti, la moglie e gli amici, che soffrono le pene dell'inferno ma che cercano di celare ogni sentimento negativo dietro un sorriso sempre radioso. E sfido chiunque a rimanere impassibile difronte a certe scene... Vorrei dire un'ultima cosa: non è vero che non c'è mai nulla da fare. O meglio, è vero che la morte è inevitabile in molti casi, ma la si può rendere più dolce e meno dolorosa. Sia per il paziente, sia per quanti lo circondano Ed è questo che un bravo sanitario fa davanti a chi non ha più speranze di guarigione=) Le soddisfazioni in quei casi non tardano ad arrivare e sono una cura parziale per quell'amarezza che ci accompagna dentro e fuori dall'ospedale.

Nicolò

Vero ha detto...

Ciao. Il tipo di dolore che descrivi è profondamente ingiusto, non si può e non si deve accettare, ti piomba addosso non richiesto e, nella migliore delle ipotesi, ti squarcia letteralmente la vita, ti umilia, ti sfida e non se ne va mai, puoi guarire fisicamente ma ci sarà sempre qualcuno o qualcosa pronto a ricordartelo, nella peggiore te la porta via la vita, prima del tempo.
Ma è anche un dolore costruttivo, ti libera dagli schemi mentali, ti insegna a dare il giusto peso alle cose, ti fa riflettere insegnandoti la pazienza, la fiducia nel prossimo, ti dona la capacità di tenere solo il buono di ogni situazione e ti fa capire chi sei.
Col cuore in mano ti invito a tenere solo il buono del mondo in cui ti sei affacciato, perchè c'è, è fatto di rapporti umani, di legami che si consolidano, di mani tese per cercare di svolgere il proprio compito nel modo migliore, e puoi farlo solo se ti accorgi di tutto quel dolore, se ti fermi a rifletterci sopra, se non ci dormi la notte, solo conoscendolo potrai rapportartici senza averne paura.

Coraggio, sei sulla strada buona e sappi che poi passa...passa tutto :)

Veronica

Simone ha detto...

Ariano: sì, è vero, dipende anche dal paziente tante volte.

Nicolò: credo anche io che fare bene quello che è il nostro dovere può in un certo senso renderci le cose più sopportabili e migliorare per quanto possiamo la condizione dei pazienti. Hai ragione.

Veronica: grazie Veronica. Proverò ad ascoltarti :)

Simone

Bruno ha detto...

Situazioni pesanti ma del resto chi fa il medico deve fare il suo mestiere, essere concentrato sul lavoro e poi passare al prossimo paziente. Di fronte alle cose gravi forse non si può essere insensibili ma non credo che ci sia il tempo per ricamarci sopra, quello lo fanno semmai i parenti.

Piuttosto quello che vorrei è avere medici che fanno tutto il possibile finché si può, senza facce da chi se ne frega, senza pensare ai cazzi propri, senza chiacchierare con un altro tizio mentre dovrebbero badare a te.

Anonimo ha detto...

Ciao Simone, mi permetto di segnalarti questo blog, tu sei molto seguito e sono sicuro che puoi contribuire a diffondere questa richiesta di aiuto:https://plus.google.com/118092955025312957208/posts
Matteo.

Simone ha detto...

Bruno: hai perfettamente ragione, prima di tutto bisogna pensare a fare il proprio lavoro.

Matteo: vado a vedere, grazie!

Simone