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Proprio uguale al mare dove vado io... |
L'esperienza più difficile in ospedale l'ho avuta - credo - l'altro giorno.
In reparto arriva Stefano, un vecchietto di 80 e rotti anni che respira male, coi reni fuori uso, il cuore anche peggio e un'infezione di quelle che studi sul libro e pensi
non si verificherà mai e invece, guarda un po', lui ce l'ha. Con lui la figlia che l'accudisce durante il giorno e che - prima di andarsene - viene da me.
«Io lo lascio in ospedale massimo una settimana» mi dice. «Non voglio che gli fate troppi prelievi, iniezioni e tutti quegli esami dell'ultima volta che è stato ricoverato».
Sua figlia ha le idee chiarissime, insomma: non si fida tanto dei dottori (e a maggior ragione non si fiderà di me) e non vuole interventi inutili e fastidiosi su suo papà e se le cose non si risolvono in fretta se lo riporta comunque a casa.
E però quando lei se ne va, nel momento che il vecchietto rimane da solo, succede che c'è da rivedere e aggiustare la terapia, come del resto è normale. E qua vi avevo messo tutta una descrizione di fisiologia, clinica, farmacologia e non so quanti altri esami di medicina condensati in un solo post, ma ho concluso che non ce ne frega niente a nessuno e passo semplicemente al fatto concreto: aiuto a dare la terapia a Stefano, e tra tutte le cose che deve prendere c'è una roba che quando te la iniettano fa un male cane e la storia finisce con Stefano poverino che si lamenta mentre io faccio quello che mi hanno detto di fare sentendomi - intensamente - una totale merda.
Che non fosse colpa mia e che era una cosa che andava fatta mi pare evidente. Però c'è questo terrore di fare più male del dovuto a qualcuno perché magari sbagli oppure hai capito male o perché semplicemente era meglio se lo faceva qualcun altro meno impedito di te. E probabilmente è necessario che uno si senta così, perché altrimenti farebbe solo casini. Però, ecco: la figlia che mi fa quel discorso, io che ce la metto tutta, ma alla fine... vabbe'. Suppongo che sia andata come doveva andare.
Il giorno dopo vado al mare, passeggio sul bagnasciuga e ci penso ancora, a Stefano. Mi chiedo se è migliorato. Mi chiedo se invece è morto, o se non è cambiato nulla e sta sempre come ieri, in quel letto d'ospedale. Mi domando se avrà detto qualcosa su di me a sua figlia, e mi chiedo quale sarà adesso la loro opinione sui medici, e su di me.
Le onde mi accarezzano i piedi, e in lontananza qualche barca che segue il litorale mi dà l'idea per un'ardita metafora, e per dire cioè che forse ho passato l'ennesimo giro di boa: ai primi tempi, durante i primissimi tirocini, quando vedevo la gente che stava male, avevo paura
per me. Paura - che so - di svenire, di non reggere la tensione o di non ricevere un buon giudizio dai miei professori.
Adesso sto pensando a un paziente, e mi preoccupo di quello che sente lui e di quello che potrebbe accadergli. Il mio ruolo alla fine invece resta sempre lo stesso, e quello che devo fare è anche piuttosto scontato: le terapie del resto non lasciano molto all'inventiva personale, ci sono le linee guida da seguire e le cose da fare sono più o meno sempre le stesse. Ma il risultato sui pazienti, no: quello può variare. E quando varia in peggio, allora è lì che sta tutta la fregatura.
Riflettevo, proprio pochi giorni fa, su cosa fosse cambiato davvero in questi anni. Be', tante cose. Ma più di tutte quell'ansia, quella sensazione di incompletezza, di qualcosa di assolutamente fuori posto che avevo dentro di me e che mi ha spinto ha rimettermi in gioco, adesso è come se l'avessi proiettata al di fuori.
E lo so che suona più come il secondo stadio di una grave malattia mentale. Ma quell'idea di avere io qualcosa che non va, di aver sbagliato delle scelte nella mia vita, si è trasformata nel tempo nella sensazione che è il mondo in cui viviamo ad avere qualcosa che non va, a volte. E che insomma non sono io l'unica causa dei miei problemi, fallimenti e frustrazioni, ma che sono cose che fanno parte del gioco, della vita, dell'interagire semplicemente con le altre persone.
Un me stesso un po' più sereno, in un mondo un po' più cupo. Questo ho barattato con 5 anni di studio, più il prossimo che deve ancora arrivare. Non era questione di fare l'ingegnere e fare il dottore e decidere quale delle due fosse meglio, ma questo almeno per me era chiaro già da un bel pezzo.
Il sole mi scotta la fronte mentre guardo l'orizzonte con l'acqua che fa su e giù e il vento tra i capelli e i gabbiani e tutta la più scontata immagine del tizio che passeggia sulla spiaggia che potete farvi venire in mente. Raccolgo una conchiglia per sentire il rumore del mare, e così vi ci ho messo anche questa, che mancava.
Continuo la mia passeggiata, sentendomi per l'ennesima volta una persona diversa. Inizio a pensare al futuro, e a quello che mi aspetta dopo quest'ultimo anno di università. E mi rendo conto di non averne la minima idea.
Simone