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Mettete il camice, e inizieranno TUTTI a piangere. |
Come se il mio spirito autodistruttivo non mi avesse già causato una quantità sufficiente di problemi (tra i quali - non dimenticate - questo blog) durante le feste ho iniziato a frequentare il pronto soccorso pediatrico.
E il posto è strutturato più o meno così: varcato l'ingresso, ti titrovi in una sala d'attesa di una ventina di metri quadri, con dentro dai 10 ai 100 (a seconda dei momenti, ma generalmente più 100 che 10) bambini che tossiscono, sputano, smocciolano e sbavazzano ovunque, come se fossero delle piccole macchine per la neve artificiale adattate però a diffondere malattie infettive.
E accanto a ognuno di loro, una coppia di genitori rigorosamente incazzati neri per le inutili ore di attesa e pronti a linciare il primo camice bianco che si ritrovano a tiro.
Insomma: nuoti nel virus respiratorio sinciziale fino a raggiungere uno strutturato in una delle sale visita. Gli chiedi di poterti accollare a lui, iniziano a entrare i bambini, e scopri che più o meno il 90% delle volte le cose vanno così:
Genitore o nonno apprensivo e incazzato nero entra nella stanza col bimbo in braccio.
«Che è successo?» domanda il pediatra del pronto soccorso.
«Il bambino ha il raffreddore da due giorni, e io non so cosa fare».
«Perché non l'ha portato dal pediatra di famiglia?»
Squillo di trombe:
scrittura sperimentale interattiva! Scegli il perché il pediatra di famiglia non ha visto il bambino col raffreddore, tra le seguenti risposte a vostra scelta:
1) Il pediatra di famiglia non aveva tempo.
2) Il pdf non ha nemmeno risposto al telefono.
3) Il pdf sotto le feste ha chiuso lo studio.
4) Il pdf mi ha prescritto dei farmaci per telefono, ma mio figlio è diventato fosforescente.
5) Il pdf mi ha detto di portarlo in pronto soccorso.
6) Il pdf sono io, ma i bambini malati mi terrorizzano.
Ovviamente non esiste una risposta corretta, ma sono tutte risposte più o meno adeguatamente verosimili. E ora per non essere accusato di qualunquismo sottolineerei che ci sono anche tanti pediatri di famiglia che si fanno sempre trovare o che vanno pure a casa dei bambini a vederli il 24 notte o il primo mattina e si beccano insomma tutte le rotture di scatole del caso. Ma i loro pazienti - ovviamente - in pronto soccorso non li ho mai visti.
Scrittura sperimentale (e relative interminabili tergiversazioni) terminata, inizia la visita.
«Spogli il bimbo e lo metta sul lettino» chiede il dottore.
La mamma, il papà o chi c'era inizia a spogliare il bambino. E fin qui, tutto a posto.
La mamma, il papà o chi per loro mette il bimbo sul letto e - anche fino qui - sempre tutto a posto uguale.
Un medico o uno specializzando o anche uno studente (che poi sarei io) prova solo lontanamente a sfiorare il bambino che fino a quel momento è stato buonissimo... ed ecco, la tragedia: pianti, strilli, urla e strepiti da crepare i vetri.
C'è questa cosa secondo me che ormai già solo a 6 mesi i ragazzini riconoscono che dai camici bianchi arrivano solo punture, pizzichi, palpate in zone che non vuoi che ti palpino e medicinali d'ogni genere che vanno assunti - chissà perché - sempre attraverso il passagio sbagliato.
E insomma, come ti vedono che ti avvicini capiscono che è in arrivo la fregatura, ed ecco che partono gli strilli. Lacrimoni giganti inondano il lettino infradiciando tutto... e io che mi chiedo:
ma le malattie infettive, si trasmetteranno pure attraverso le ghiandole lacrimali?!
Immagino assolutamentissimamente di sì. Come si trasmettono attraverso la bocca, le orecchie, il naso e tutte le secrezioni che ne derivano.
Una volta abbiamo beccato una bambina con una "mano-bocca-piedi". E la dottoressa mi ha fatto:
«Hai visto la mucosa orale?»
Io mi sporgo in avanti per vedere meglio l'interno delle guance... e la bimba mi tossisce perfettamente - ed esattamente - in bocca. Un centro perfetto. E forse la mano-bocca-piedi ce l'avevo già avuta, o forse non si attacca poi così facilmente quando uno è adulto: in ogni caso, il fine settimana seguente l'ho passato con una certa apprensione.
Che poi dopo che visiti uno, dieci, cento bambini, ti accorgi che - tolti ovviamente casi particolari - hanno tutti più o meno sempre la stessa cosa: parti da un raffreddore, poi una tosse un po' antipatica, poi la febbre, poi inizi a respirare male fino a una polmonite vera e propria... ma insomma: è sempre lo stesso virus figlio di puttana, che poi a seconda dei casi e delle situazioni e delle predisposizioni individuali (l'equivalente medico della
sfiga, come dico sempre io) dà degli effetti da praticamente nulla a ricovero immediato in condizioni gravissime.
Cercate
Virus respiratorio sinciziale su Wikipedia, e saprete già più o meno il 90% della teoria che un pediatra di pronto soccorso si trova a dover utilizzare. Il medico di pronto soccorso
bravo, più di quello, ha la semplice caratteristica di essere presente. Di aver letto qualche libro in tema con gli argomenti di cui si occupa, e di aver visto settantamila milioni di miliardi di bambini con un cazzo di raffreddore, al punto da saperti dire:
«Bambino di 6 mesi, con la febbre: ricoveriamo».
«Tre anni. Non mi piace questa tosse: facciamo una lastra».
«A lui diamo la tachipirina. Per qualche ora rimane qui, e poi vediamo».
«Signora, può tornare a casa. Ma se non scende la febbre lo riporti».
E i medici più bravi di tutti - nel pronto soccorso pediatrico - sono gli infermieri: per fare un prelievo a un neonato, devi inserire un ago spesso quanto un capello dentro a una vena appena invisibile. Col bambino che strilla come un'aquila, e i genitori già incazzati neri per conto loro che ti sorvegliano guardandoti storto.
Virata melodrammatica, che ormai avrete capito che i miei post sono tutti così: verso la fine del turno, ci chiamano in reparto per vedere un paziente.
In mezzo al casino del pronto soccorso, non si capiva che eravamo in un giorno di festa. Ma nelle altre aree dell'ospedale, invece, è evidente: corridoi vuoti, qualche infermiere che gira, uno specializzando ogni tanto sepolto da torri di cartelle cliniche da aggiornare.
Il nostro paziente è un bambino già malato di suo, ricoverato per una brutta infezione.
Sta lì sulla sua sedia a rotelle. Respira con un tubo nella trachea. Non so nemmeno se capisce oppure no quello che gli succede intorno.
Dei genitori accanto a lui, non mi viene da dire nient'altro, se non: stanchi.
Stanchi di aspettare, stanchi di una vita fatta di medici e corsie ospedaliere, stanchi ogni volta di inseguire qualche nuova terapia, possibilità o soluzione, per poi finire regolarmente a schiantarsi contro l'ennesimo muro di complicazioni e di fallimenti.
Il pediatra del pronto soccorso legge la cartella. Rivede la terapia. Cambia antibiotico... o non lo so che fa di preciso, veramente. Diciamo che cambia qualcosa, per non cambiare - sostanzialmente - nulla.
Mentre il dottore aggiorna la terapia e discute coi genitori, io guardo il bambino. Ha gli occhi socchiusi, e la testa inclinata su un lato, che non ce la fa a tenerla su.
Inclino la testa come la sua, per guardarlo dal dritto.
«Ciao, giovanotto!» gli dico.
In tutto quello schifo in cui siamo immersi, lui pare che mi sorrida. Credo. Non ne sono sicuro... ma credo di sì: sembra proprio un lieve, e accennato, piccolo sorriso.
Lasciamo la stanza, saluto il dottore del pronto soccorso e lascio anche l'ospedale. Nell'andar via incrocio altri genitori con i loro bambini. Due infermieri, e uno specializzando ancora nella sua stanzetta a scartabellare superflui incartamenti cartacei. In tutto l'edificio, o - forse - in tutto l'intero comprensorio del policlinico, credo di essere l'unico studente.
Studenti che si impegnano al massimo per avere voti alti. Studenti che sognano di vincere concorsi su concorsi, di battere tutti e di avere anche un gran colpo di culo, fintanto da riuscire ad arrivare lì. Proprio lì, in quel reparto, a fare le cose che ho fatto io oggi.
Questi sono i sogni degli altri. Di alcuni di loro, almeno, se non della maggior parte.
Lascio un policlinico semi-desero in un giorno di festa. Monto in macchina, e guido verso casa. E quali siano i miei - invece - di sogni, in questo momento, non lo saprei veramente dire.
Simone